Equilibrio instabile

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Come se nulla potesse mai venir fuori da un barattolo chiuso ermeticamente: è così che mi sento. Come se qualsiasi sensazione non fosse concessa, come se ogni pensiero fosse costretto a rimanere dentro di me, giustificato dalla professione che ho deciso di svolgere nella mia vita.
Te la sei scelta tu, mi direte, nessuno te l’ha imposto. E questo è vero, tanto quanto lo è il fatto di essere, però, prima di tutto me stessa. E come si fa ad essere sé stessi, se è difficile esserlo a prescindere? Figuriamoci poi in un mestiere come il mio, che per definizione deve lasciar spazio all’altro in un tempo che deve essere pieno e cucito addosso alla persona che siede di fronte. Non è concessa la possibilità di vacillare, non sono concesse pause né dubbi o incertezze. Non ci sono concessioni, ma solo richieste.

Sono una psicologa, devo sempre avere la risposta a tutto. Non sono ammesse domande. Ma chi l’ha deciso che debba essere per forza così.
Nella relazione terapeutica con l’altro, entrambi si cambia, perché il confronto con il vissuto di un’altra persona fa sempre riflettere su quello che è il proprio di vissuto, offre spunti di riflessione e sguardi al passato che a volte rendono scomoda la sedia sulla quale siamo seduti. A volte, in un secondo, le sensazioni mutano, e con loro muta anche il nostro essere nella “stanza delle parole”. È così che viene definita, spesso, la stanza in cui vive la terapia; e non è già questa, secondo voi, una chiave di lettura? Una stanza piena di parole. Una stanza nella quale fluttuano dubbi, insicurezze, paure, realtà, fantasie ed emozioni. Una tela che ogni giorno viene dipinta in infiniti modi diversi. È a noi psicologi che spetterebbe, quindi, l’arduo compito di far tornare quella tela bianca ogni giorno, facendo finta che niente di tutto ciò che viene condiviso in terapia sia mai successo. Resettare l’ambiente e noi stessi. A noi spetta il compito di lasciare gli altri essere ciò che sono e reprimere, quasi totalmente, ciò che sentiamo dentro.

Non è semplice mascherare e non mostrarsi. Non ci rende la vita facile fingere che le parole intrise di emozione di un’altra persona possano lasciarci indifferenti e impassibili. E questo, il più delle volte, non accade, perché non siamo capaci di restare fermi lasciando che tutto quello che ascoltiamo ogni giorno ci trapassi senza lasciare traccia. La spiegazione a tutto questo è tutt’altro che banale: siamo persone, e in quanto tali abbiamo il diritto di sentirci, di ascoltarci, di riuscire a stare nel momento presente dando spazio e vita ai nostri di pensieri. Ai più, tutto questo potrà sembrare quasi assurdo, perché siamo stati abituati ad un concetto di terapia che si discosta non poco da quella che è la realtà. È quasi come se noi, in quanto psicologi, non avessimo il diritto di titubanza, perché rischieremmo di perdere di credibilità: ma come, uno che sta male con sé stesso come può far stare meglio qualcun altro? E allora ci viene chiesto di essere rocce, forti e imperturbabili, ma anche empatici e sempre

sorridenti, come se fossimo dei robot, creati per aiutare gli altri a ricomporre la loro vita senza scomporre mai la nostra. Ma è davvero questo il senso di questa professione? Devo davvero, per tutta la vita, sentirmi costretta a non sentire niente? Io non voglio che sia così, non credo che lo sia. È nel momento in cui smetto di sentire che smetto anche, nel medesimo istante, di essere me stessa. Non ci sono differenze nella relazione terapeutica, siamo entrambi immersi in un’imprescindibile uguaglianza, che per essere sentita ha bisogno di penetrare dalla superficie in profondità. Se io percepisco qualcuno solo in superficie, riesco a rendermi cosciente solo delle differenze che esistono tra noi. Se riesco, invece, ad entrare davvero in contatto con l’altro, è lì che sono capace di percepire ciò che ci rende simili, ed è proprio lì che non riesco a non dar voce a ciò che arrivo a sentire forte dentro di me. Come un grido. Come un bisogno.

Come potrei mai aiutare davvero qualcuno, allora, se non riesco ad entrare in una comunicazione profonda con l’altro, con il rischio, però, di mettermi in discussione? Comunicare significa dare reciprocamente, perché dare qualcosa, in terapia come nella vita quotidiana, implica anche il ricevere. Non si può evitare di ricevere ciò che ci viene dato, perché è proprio in quest’atto che nasce l’unione empatica tra due persone.

Se tutto questo è vero, perché allora noi psicologi non dovremmo avere il diritto di essere persone, ma limitarci ad essere professionisti, con tutti i rischi che questo comporta?
Non sono disposta a non pormi mai delle domande. Non voglio non dovermi (o potermi) mettere in discussione. Non voglio non lasciare spazio ai miei stati d’animo. E questa non è una pretesa, è un diritto. E lo è non solo per il mio bene, ma anche e soprattutto per il bene di chi mi chiede aiuto. Essere in contatto con sé stessi, provare a conoscersi ogni giorno di più senza dare per scontato il proprio essere, è questo che ci rende davvero credibili. Avere il coraggio di affrontarci ogni giorno, di concederci il diritto di essere persone senza che questo sia considerato sbagliato. Imparare, col il tempo e l’esperienza, a gestire le nostre fragilità per renderle utili e fruibili nella relazione con l’altro. Accompagnarlo nel suo dolore, senza per forza mettere a tacere il proprio. Sentirsi da soli è orribile, soprattutto quando siamo in mezzo alle altre persone. Non sentirsi compresi, contenuti, cullati, è questo che crea paura. Ho bisogno anch’io di sentirmi incerta. Anche io voglio sentirmi in diritto di dire no, oggi non va. Potermi concedere la sensazione di instabilità senza sentirmi in colpa per questo. Il senso del lavoro dello psicologo non è mostrarsi sempre forte agli occhi degli altri, come se niente e nessuno potesse mai renderlo vulnerabile, ma riuscire a mettere sé stesso nella condizione di vivere al meglio la terapia, concedendosi il sacrosanto diritto di stare male o di gioire oppure di sentirsi euforici o senza forze. Senza remore, senza paure. Solo in questo modo si può davvero essere d’aiuto, sforzandosi di conoscersi ogni giorno sempre un po’ di più, concedendosi il beneficio del dubbio.

Se non permetti a quest’ultimo di farti vacillare, non sarai mai in grado di mantenere davvero l’equilibrio.

Dott.ssa Ilaria Potenza

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