Siamo vita se scegliamo di vivere

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Sin da bambini ci insegnano che l’insicurezza non è concessa. Ci presentano un mondo “perfetto”, un modello a cui fare riferimento. Un ideale spesso falsato, fatto di regole, osservazioni critiche o esaltazioni. E ti ritrovi sin dalla tenera età a fare il possibile per somigliare a quel modello.
Perche? Per compiacere gli altri? Per farti volere bene? Per non deludere le aspettative?

Succede a gran parte di noi, ed è successo anche a me!
Ero una bimba super amata, spesso idealizzata, anche troppo. Mi è stata affigliata la responsabilità di sedere su di un trono e da piccoli il mondo delle favole entusiasma un bel pò, anche se devo dire che preferivo camminare a piedi nudi sui sassi caldi e sporcarmi con il fango piuttosto che configurare il ruolo da reginetta.
Sin dai primissimi passi, nel momento in cui tenti di restare in equilibrio e andare sulle tue gambe, completamente inconsapevole dell’importanza di tale atto, ci circondi di tante facce sorridenti intente ad applaudire e urlare “Brava!!!” , e tu completamente sorpresa e compiaciuta!
Quel “Brava”, me lo porto dietro da quei primissimi momenti di vita.
E vi starete chiedendo cosa c’è in quel “brava” che non va! Assolutamente nulla quando cresci in una grande famiglia del sud Italia.
Nonni, zii, mamma, papà e potrei aggiungerci amici, vicini e compari. Ognuno di loro con un qualche ruolo non sempre definito tanto da mettere confusione: “voglio la mamma o la nonna?” , “è giusto quello che dice papà o la zia?’”
In ogni caso, capitava che in tante occasioni assumessi “la centralità”.
Con il tempo, crescendo, ti rendi conto che non sei poi “così Speciale” o almeno lo sei solo per le “Tue Persone”.
E quindi come si fà? Com è non essere speciali, non ricevere applausi o sguardi di orgoglio?
Fuori è tutto più complicato, fai i conti con il mondo, nel quale sei un piccolissima parte e non importa a nessuno del tuo essere brava, bella, simpatica, divertente anche se pensi che questo abbia valore per gli altri ma è tutto lì nel tuo cofanetto.
Questo lo scopri, molto più avanti però, dopo i primi tentativi di dimostrare quella capacità o unicità o di spiccare tra la folla. Sicuramente semplice da più piccoli, recitavo poesie e filastrocche e anche di fronte a orribili cantilene “sei brava!”.
Ora sorrido pensandoci e vi stare chiedendo in che modo questo ha avuto un impatto sulla mia vita e sulla persona che sono diventata.

Quella grande ovatta bianca, fatta di amore, orgoglio e riconoscenza, resta il mio rifugio, il luogo sicuro a cui sono estremamente grata.
Ora, provate a chiedervi come sarebbe stare in uno spazio fatto di sola ovatta bianca, tutta soffice e candida?Cosa succederebbe se cadesse un pò di inchiostro nero, giallo, rosso o di qualsiasi altro colore?

Ecco che si struttura l’idea che per mantenere quel candore “devi essere brava o all’altezza delle aspettative!” Brava a scuola, con le persone, in forma fisica, un pò come quel modello da rivista Vogue anni 90.
Ad un certo punto della mia vita, sono cadute varie gocce di inchiostro. La vergogna ad esempio è stata per anni un’emozione temuta. Dalla bimba che recitava come su di un palcoscenico a teatro, all’esame universitario in cui vorresti nasconderti perché il tuo corpo mostra ciò che sente con grandi chiazze rosse sul collo e con voce simile ad un megafono. E quella scena grida alla mente “la figuraccia che stai facendo”, il giudizio a cui ti stai esponendo e la temuta possibilità di “non essere brava”

Ed è come se quel modello, proprio come una bambola, non potesse piangere, ridere a squarciagola, scompigliarsi i capelli o mangiare una stecca di cioccolata.
Ho così iniziato a darmi delle regole, ad essere rigida con me stessa per non perdere quell’immagine desiderata.

Ma da chi?
Certo non da me! Solo dopo aver riconosciuto le mie più intime insicurezze, sono uscita da quel modello e ho capito cosa fosse “desiderio”.

Ho capito che il mio corpo aveva bisogno delle giuste attenzioni e che fino al quel momento avevo dato per scontato troppe cose.

Ho dovuto fare i conti con la GENTILEZZA.

Sai esistono tantissime forme di gentilezza, verso gli altri, verso l’ambiente, gli animali, gli oggetti e verso se stessi. Quest’ultima è la più difficile da mettere in atto. Essere gentili significa avere rispetto, significa accettare. Mi sono resa conto che quella gentilezza mi era sconosciuta.

Ho imparato ad ascoltare il mio corpo, ad abbracciarmi e consolarmi. Ho imparato a riconoscermi e a stare anche con ciò che mi faceva paura, ciò che mi faceva sentire fragile.

Viviamo in una società dove ciò è poco concesso ed io più di tutti, con il mio lavoro e le persone che mi circondano sentivo di non potermi permettere di fare emergere la mia fragilità.

E invece anche io mi sgretolo a frantumi.

Ho imparato a rimettere i pezzi al loro posto a volte perdendone alcuni e questo si sa, come per tutte le cose aggiustate, restano i segni.

E qui dipende dai punti di vista. Per me questi segni, non sono altro che tracce di un vissuto, un’esperienza. Un’esperienza che si può scegliere di conservare piuttosto che provare a cancellare.

Dopo tutto come si fa a cancellare una cicatrice o il segno di un vaso rotto?

Sappiamo bene che non è possibile, come non è possibile ignorarla, soprattutto quando rappresenta qualcosa di importante. In Giappone, attraverso l’arte Kintsugi, le fratture diventano trame preziose. Perché non fare la stessa cosa con le proprie crepe? Tutto ciò che è importante può generare dolore. Sono due facce della stessa medaglia.

Il Kintsugi non è solo una tecnica di restauro, ma ha un forte valore simbolico. Quella frattura possiamo imparare a guardarla con occhi nuovi, occhi che ne riconoscono il valore.

Ho capito che ciò che per me è importante è dare amore. Sento di avere tanto di questo amore da dare.

In Africa e in India più che mai, ho sentito quell’amore scorrere nelle vene. Mi sono sentita impotente perché quello che potevo dare in quel momento è davvero una briciola rispetto a ciò che sentivo dentro.

E ho scelto di sentire tutto ciò che c’era perché era proprio quel sentirmi viva di cui ho bisogno.

Ricordo ancora quel momento nel villaggio di Varanasi, intenta a fare palloncini senza perdere gli sguardi e i labili sorrisi di tutti quei bambini. Babaji mi guardava e ad un tratto le sue parole mi hanno dato la possibilità di fermarmi e di diventare davvero consapevole di ciò che stavo vivendo:

“The children are like god, you make them happy today! Today you gave them smile. Are you happy?”

La mente ha lavorato così velocemente in quel momento, “Marika, tu sei felice? Mi continuavo a ripetere e ho avuto bisogno di tempo per capire che quella, per me, era davvero la FELICITA’.

La felicità, così sfuggente e tanto ricercata. Mi vengono in mente le parole di Osho:

“Le persone vogliono la felicità – ma il semplice volere, non è sufficiente. Desiderare non è sufficiente. Dovrai addentrarti nel fenomeno della tua miseria, come la crei – come in primo luogo sei diventato infelice, come continui a diventare infelice ogni giorno – qual è la tua tecnica? La felicità è un fenomeno naturale – se qualcuno è felice non è per via di una tecnica, se qualcuno è felice non ha bisogno di alcuna competenza per essere felice. Gli animali sono felici, gli alberi sono felici, gli uccelli sono felici. L’intera esistenza è felice, tranne l’uomo. Solo l’uomo è così intelligente da creare infelicità – nessun altro sembra essere così abile. Quindi quando sei felice è

semplice, è innocente, non c’è nulla di cui vantarsi. Ma quando sei infelice stai facendo grandi cose a te stesso; stai facendo qualcosa di veramente difficile.”

Ciò significa che fermarsi a sentire quello che c’è, qualsiasi momento della quotidianità potrebbe farci scoprire che quello è un momento felice.

Io mi sono fermata e ho RESPIRATO! Respirato profondamente, ho sentito un grande sollievo.

Oggi quel “sei abbastanza brava?” Bussa alla porta , spesso e volentieri nel lavoro da psicoterapeuta e nella vita di tutti i giorni. Ho deciso di dipingerlo di rosso, di nero, di blu perché amo i colori e mi do la possibilità di vivere e abbracciare l’insicurezza e l’imperfezione pur conservando quella soffice ovatta bianca nell’angolo del mio cuore.

Dott.ssa Marika Gesuè

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