Il peso dello sguardo dell’altro nei disturbi alimentari

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Esiste una stretta correlazione tra l’esperienza che ogni persona fa del proprio corpo e la costituzione dell’identità. Ciò che posso dire di conoscere di me stesso passa anche attraverso il rapporto che avrò con il mio corpo e da come proprio il mio corpo diventerà oggetto dello sguardo degli altri.

Abbiamo almeno tre modi diversi di fare esperienza del nostro corpo, che è quasi come affermare di avere tre corpi diversi con i quali entriamo in relazione.

La prima esperienza del nostro corpo è quella immediata, sensoriale, ciò che del corpo “sentiamo” mentre facciamo esperienza di qualcosa. È un sentirsi silenzioso, un piano dell’esperienza tacito, senza sforzo di coscienza. Mentre vivo, il mio corpo si rende impercettibile, resta silenziosamente sullo sfondo della mia coscienza. Nel sopraggiungere della malattia, invece, il corpo riemerge e si impone come oggetto che soffre, ripiegato dal dolore o da timori che esso possa dissolversi o smettere di vivere.

Questo primo livello della corporeità si può chiamare carne. La carne “sente”, fa esperienza immediata del mondo; pulsa, desidera, gode, soffre, si agita, si oscura e si impone.

E si emoziona.

 

La seconda esperienza che facciamo del nostro corpo coinvolge una prospettiva esterna, come il guardarsi allo specchio o in una fotografia. Il mio corpo, quindi, diventa “quel” corpo, ciò che io vedo di me – rispetto alla carne che rappresenta “questo” corpo, ovvero il corpo che io sono.

Se questi due primi livelli della corporeità, questi due corpi che mi appartengono, risultano essere ben bilanciati in un equilibrio dialettico sufficientemente buono, saranno gettate le basi per una proficua costituzione dell’identità personale. L’equilibrio dialettico corrisponde a una proporzione – un equilibrio, appunto – per mezzo del quale riuscirò a sentire le emozioni che ci radicano in noi stessi e nel mondo. Quanto più, quindi, il rapporto tra la carne e il mio corpo (da me stesso osservato) non sarà doloroso, problematico o enigmatico, tanto più la mia persona avrà l’opportunità di riconoscere le emozioni e integrarle in una biografia che creerà la trama narrativa della mia identità.

 

Ma al processo della costituzione dell’identità personale partecipa anche una terza esperienza che ogni persona fa della propria corporeità: essere un corpo visto dagli altri, sotto lo sguardo dell’altro. Come “sento” il mio corpo quando è oggetto dello sguardo dell’altro?

Ogni persona ritrova il proprio corpo quando è in presenza dell’altro, prende corpo grazie allo sguardo altrui. Essere di fronte all’altro significa sentirsi soggetto che fa esperienza del corpo d’altri come oggetto ma, allo stesso tempo, anche il suo contrario: l’altro si trasforma in soggetto per il quale io, con il mio corpo, divento oggetto. Attraverso il mio corpo l’altro mi localizza, sa che sono in un spaziale. Oltre al mio, sul mio corpo si infrangono anche i punti di vista degli altri, appunto i loro sguardi. In sintesi, siamo carne che fa esperienza di se stessa, che “si sente”, ma anche corpo che diventa oggetto dell’esperienza degli altri.

Cosa accade, quindi, in chi soffre di DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare)?

Prendendo soprattutto in esame il quadro clinico dell’anoressia, le possibilità di sentire il proprio corpo – e quindi di poter riconoscere le proprie emozioni e costruire un’identità sufficientemente solida – saranno affidate esclusivamente allo sguardo dell’altro, ovvero a quella che ho descritto come terza esperienza della corporeità. “Solo quando mi sento osservata dall’altro io riesco a sentirmi”, si potrebbe dire. Se l’identità personale prende corpo esclusivamente in presenza dell’altro, va da sé che modellando il mio corpo sarò in grado di modellare anche la mia identità, tutta la mia persona, e potrò sentirmi. Nei DCA si assiste a un profondo e perturbante sentimento di estraneità rispetto al corpo vissuto, ovvero rispetto ai primi due livelli dell’esperienza corporea sopra descritti. Il corpo vissuto diviene una miniera di anomalie, di esperienze enigmatiche e angoscianti, e attraverso esso nella persona si affievolisce la capacità di desiderare ed emozionarsi, tanto che, per poter sentire, dovrà affidarsi a una prospettiva in terza persona, come se il proprio corpo fosse un oggetto da indagare e misurare. La carne, poiché senziente, risulta essere un “chiasso” di sensazioni disordinante e angoscianti, un frastuono incomprensibile; chi soffre di DCA conosce un solo rimedio a tutto questo: denudare il proprio corpo di tutta la naturalezza, di tutti i suoi istinti e bisogni, delle sue pulsioni e trasformarlo in un oggetto controllabile, misurabile, verso il quale ci si può mettere in posizione scettica o, addirittura, negarne la sua vitalità. Il controllo dell’appetito è una diretta conseguenza di questo progetto.

Come detto in precedenza, l’identità, in queste forme di esistenza umana, viene affidata soltanto a come l’altra persona mi guarda, ovvero a come il mio corpo appare all’altro. Il corpo si modella attraverso lo sguardo altrui, da esso prende forma e spessore. L’altra persona che mi sta di fronte non è altro che i suoi occhi che osservano, un giudice severo, uno sguardo a cui posso piacere o da cui posso essere respinto. Alla luce di questo il corpo diventa un compito da portare a termine e non ciò che mi posiziona nel mondo, che dà vita alle emozioni che incontro vivendo.

Le emozioni, poiché ci restituiscono il nostro corpo vissuto, sono perturbanti, e l’interazione con esse, nella persona affetta da DCA, risulterà muta e alienata, come uno stereo che non riproduce l’audio del brano che gira al suo interno.

 

«Io sono morta nell’anima. Adesso vivo soltanto per piacere agli altri»

 

Per riassumere, il tratto di vulnerabilità delle persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare risulta essere proprio l’impossibilità di sentirsi attraverso il proprio corpo, quindi di vivere emozioni, di articolare una narrativa su se stessi e, come risultato finale, di poter costruire la propria identità su questo percorso dialettico.

 

Stanghellini G. (2020), Selfie, Feltrinelli, Milano

Sartre J-P. (2014), L’essere e il nulla, il Saggiatore S.r.l., Milano

 

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